“Patto per Milano”: come ti vendo un normale programma (con molti buchi)
Marketing. Ovvero, la politica come annuncio. Ossia, confezionare promesse e infiocchettarle con un bel nastro colorato, senza chiedersi quanta sostanza ci sia dentro quel nastro. Il “Patto per Milano” andrebbe studiato nei corsi di pubbliche relazioni: come vendere per merce nuova e mirabolante un normale programma amministrativo (allungare le linee del metrò, comprare nuovi treni e autobus per il trasporto pubblico, fare la manutenzione delle case popolari, riempire le buche delle strade, cercare di non far esondare il Seveso a ogni temporale eccetera). Le cose che ogni sindaco dovrebbe fare senza menare troppo il torrone – come si dice a Milano – e che Giuseppe Sala ha già trovato scritto nell’agenda che gli hanno lasciato in eredità i suoi predecessori. Un normale programma amministrativo che avrebbe fatto o che dovrebbe fare qualunque sindaco, di destra o di sinistra, arrivato alla guida di una grande città come Milano.
No, a questo elenchino viene dato un nome altisonante – “Patto per Milano” – e viene presentato con grandi squilli di trombe e rullar di tamburi, firmato sotto i flash dei fotografi – chissà perché – dal sindaco e dal presidente del Consiglio in persona, sotto il gonfalone di Sant’Ambrogio, poverino, che si chiede perché l’hanno disturbato per così poco. Una versione ridotta del “Contratto con gli italiani” che neppure Bruno Vespa vorrebbe nel suo programma. Quanto ai soldi promessi, sembrano le baionette di Mussolini: un miliardo e mezzo di euro, strillano i giornali compiacenti già due o tre giorni prima; due miliardi e mezzo, annunciano addirittura il gatto e la volpe tra gli applausi della claque. Di soldi veri, comunque, ce ne sono ben pochi, in parte già previsti e stanziati, e quelli preventivati per il prossimo biennio non sono più di 644 milioni.
Il capitolo più interessante del “Patto per Milano” è quello che riguarda il futuro dell’area che ha ospitato l’Expo. Provate a pensarci: lì abbiamo già speso 2,2 miliardi di denaro pubblico, ricavandoci non più di 700 milioni (questi sono i numeri veri dell’operazione Expo). Il progetto iniziale era, alla fin della fiera, di vendere l’area ai privati con i diritti a edificare e ciao. Con la crisi in corso e i milioni di metri quadri sfitti a Milano, nessuno si è presentato alla gara. Ecco allora che gli amministratori si sono messi alla disperata ricerca di un piano B, di un’idea per non rendere visibile la mancanza di progettualità con cui è stata costruita l’operazione esposizione universale. Un grande polo scientifico, un parco della scienza, del sapere e dell’innovazione: questo diventerà l’area Expo. Chissà come, chissà quando e con chissà quali soldi.
A fine ottobre sarà pubblicato il bando internazionale per la scelta della società che dovrà elaborare il “masterplan” dell’area, cioè dirci finalmente come riempire il milione di metri quadri più costosi d’Italia (2,2 miliardi già spesi, appunto, più i soldi che si stanno continuando a spendere). Sappiamo chi si è fatto avanti per ora, con manifestazioni d’interesse che però non sono vincolanti. C’è Human Technopole, il polo di ricerca biomedica voluto da Matteo Renzi che ancora non si sa se sarà comandato dall’Istituto italiano di tecnologia di Genova o guidato da un fantomatico comitato di indirizzo che sembra un parlamentino inventato per far tacere le proteste anti-Iit. C’è l’università statale di Milano che dovrebbe trasferire lì le facoltà scientifiche, ma con un’operazione che ha bisogno di tanti anni e di tanti soldi. Ci sono aziende internazionali che per arrivare nell’area aspettano sia trasformata in una piccola Irlanda a tasse zero. Ma è questo il modo con cui si progetta il futuro della città “che deve guidare l’Italia fuori dalla crisi”?